8 marzo 2020

Osservo le donne che curano, senza riserve, che farebbero qualunque cosa per chi sta loro accanto, per chi è il destinatario di tutto il loro bene. Come le chiama la mia amica Camilla, con quell’ironia delicata che solo lei sa maneggiare così bene: 'gli angeli del focolare'. Forse hanno scelto di stare a casa per portare avanti quella dimensione di cura senza compromessi, forse sono state costrette a farlo. Forse non hanno mai imparato a cercare la loro identità in quello che sono e non in quello che fanno per gli altri. Forse non sanno di poter bastare a se stesse. Eppure capita addirittura che la loro cura così avvolgente venga data per scontata, che la loro gentilezza buona sia scambiata per un dovere: sarebbero guai solo se non ci fossero. E allora queste donne si confondono, tentennano, vacillano, inciampano, cadono e si rialzano faticosamente, alla strenua ricerca di un punto fermo. 

Osservo le donne che corrono tutto il giorno: casa, lavoro, due ore di palestra per restare in forma, attività di cura di sé organizzate, supermercato bio e feste di compleanno da progettare (di lui, dei bambini, della mamma, della suocera, dell’amica del cuore). Corrono: silenziose, tenaci, a testa bassa, un po’ dimentiche della vita, forse più veloci della vita stessa. Una continua tensione all’ottimizzazione: la trappola dello stile di vita perfetto. Finché la voce che sussurrava loro Rallenta! non diventa un urlo. E qualcosa nel loro orologio interiore si rompe. Senso di colpa, affanno. Forse pensano di essere donne sbagliate, che hanno tradito le loro relazioni primarie e quel benedetto focolare. Credo che una società che rischi di far ammalare chi deve conciliare famiglia e lavoro, soprattutto nel caso di una professione che porti ad affermarsi, non sia una società sana. Penso che in una coppia composta da due lavoratori, quantomeno la cura domestica andrebbe divisa in parti uguali. Ma il ruolo dell’uomo è limitato a quello di 'aiutante' ('E’ tanto bravo, mi aiuta la domenica, quando può!'), mentre il peso della gestione della casa ricade comunque principalmente sulla donna. Dio. È una consuetudine che nella società moderna non ha più alcun senso.

Osservo le donne che hanno scelto consapevolmente di non avere figli, con una vita che piace così com'è: un lavoro con cui arrivare serene alla fine del mese, degli amici con cui uscire o fare un viaggio. Senza che ci sia il bisogno di lottare per un obiettivo più alto, senza necessariamente ostinarsi e ossessionarsi per la maternità, la coppia, il successo. Sembra facile: eppure serpeggia quel filo sottile (dico: sottile, quando va bene) di disagio rispetto alla confluenza di femminismo e capitalismo, che si colloca tra le aspettative del contesto sociale (Italia, siamo in Italia!) e la produttività: siano piccoli umani o, almeno, una carriera sfolgorante.

In questi anni di commenti sessisti, di quote rosa di facciata, di schiaffi arrivati a tradimento ('Ma qualcosa dovrò aver pur fatto per meritarmeli'), un primo pensiero va agli uomini: quando vedete che qualcosa non va, vi prego: lasciate perdere i consigli iperazionali, che il più delle volte li sappiamo già a memoria. Aprite invece le vostre possenti braccia e per una caxxo di volta dite: 'Non preoccuparti cara, andrà tutto bene!', come faceva quel gran figo di Cary Grant nei polpettoni hollywoodiani anni ‘50.

L’altro pensiero: affettuoso, profondo, ricorsivo, circolare, va a tutte loro. A tutte noi. Perché lo troviamo, finalmente, quell’equilibrio. Esteriore, interiore: ma senza chiedere il permesso a nessuno.