"Suburbicon" di George Clooney

Dove ci sono i fratelli Coen, anche se non propriamente alla regia, ma alla sceneggiatura, per me è sempre una garanzia. Li adoro come la pizza al gorgonzola, l’odore dei tigli in estate, la crema idratante dopo il sole. Di Clooney regista confesso di non sapere granché, ma a cicca e spanna direi che si sia divertito a girarlo: chissà, un po’ di documentarismo-denuncia (che non fa mai male), un po’ di campagna anti-Trump. 

Suburbicon è un tranquillo (o apparentemente tale) quartiere residenziale californiano. Buffo eh, il nome in inglese ricorda quello dell’unicorno: polverina di stelle e qualcosa di mistico, di esoterico, cioè, di un po’ magico, ma magico bello, magico buono. E invece.

Di buono non c’è proprio nulla. Da un omicidio a sangue freddo ad una compostezza manieristica dell’America anni ‘50, con le onde nei capelli tinti, il grembiule a ruota inamidato con le farfalle ton sûr ton e il pane e burro di arachidi con il classico bicchierone di latte. Tanto fintamente gioiosa e perfetta da sembrare quasi psichiatrica. Da un odio razziale crescente ed esponenziale, feroce e meschino, che nasconde una fottutissima paura, ad una codardia miseramente coperta dal perbenismo ipocrita del sobborgo, dove ‘Questo è un posto sicuro?’ ‘Lo era...’.

Di bello però ci ho trovato tanto: la fotografia, i colori complementari, l’espressività magnetica del piccolo protagonista. 

E quella scena finale dove la palla da baseball che passa da una mano all'altra la dice lunga. Più lunga di tante parole.