Netflix. "La ragazza di neve", di Javier Castillo

Una Spagna diversa, poco scontata, sole e nuvoloni grigi. Una Malaga ventosa e ruvida, tutt’altro che scintillante. 

Una serie tratta da un libro di Arnaldur Indriolarson, seppur è stata cambiata l'ambientazione. Beh, vi dirò che mi ha tenuto sveglia in una brutta giornata di influenza e mi ha fatto una buona compagnia sotto al piumone.

Su tutto mi ha colpito moltissimo perché essenzialmente virata sul femminile. Ma non perché gli uomini non ci siano: agiscono cose, fanno scelte, alcune buone, altre orribili, dicono la loro, o ci provano almeno, ma sono complessivamente un contorno. Neanche troppo di spessore, un puré Pfanni di quelli in busta, giusto per capirci.

Le donne, invece. Queste sono così intense, gli occhi che parlano, urlano, tagliano, le occhiaie abbozzate, le zampette di gallina, i primi piani zoomati sul dolore, a ciascuna il suo. La madre, la figlia, la legge, la stampa: come se fossero gli archetipi di un mondo che ruota nel femminino.

Nelle sei puntate si avverte nitidamente l’escalation della perdita progressiva del confine tra bene e male.

Il trauma, la violenza: quella agita, quella subita. Quella che lascia cicatrici per una vita intera, quella che si muove sottopelle. Quella peggiore, perpetrata contro minorenni.

I confini della giustizia, del perdono, della vendetta. 

I confini dell’amore: dove inizia, fin dove si può legittimare. Dove non è più tale, ma diventa altro.

I confini della famiglia, quelle abitudini che tanto sanno di rito quotidiano.

I confini della casa: una caverna, una tana, ma che talora pretende di essere un nido.

Vita e morte si intrecciano fino alla fine, in un gioco di scatole cinesi, nei salti avanti e indietro negli anni, dove nulla è come si sarebbe immaginato. E solo allora si chiude il cerchio, anche quello del titolo.