"Io Capitano" di Matteo Garrone

La storia è quella di un viaggio di due cugini sedicenni, Seydou e Moussa, migranti da una Dakar povera ma
non disperata, dove si percepiscono scherzi, risate e balli: perchè la fuga può essere fatta anche per
inseguire un sogno, quel benedetto autografo da firmare ad un bianco. Dal Senegal a Tripoli e poi fino alle
coste siciliane, i due affrontano il calvario del Sahara e delle prigioni libiche.
E la storia non è bella solo sul grande schermo, ma anche nella vita vera, perché oggi i due attori senegalesi che parlano wolof, la lingua del loro paese, oggi sono amorevolmente ospitati a casa della mamma del regista, a Roma.
Garrone racconta quella che lui definisce ‘la nuova Odissea’, tracciando negli occhi neri così intensi, smarriti
e impauriti la vicenda di questo giovanissimo ‘Ulisse’, che conduce per la prima volta nella sua vita una
barca tra le onde del Mediterraneo.
Un film stupendo, scene, colori, fotografia, che narra la verità cruda - pur senza indugiare in scene violente, ma facilmente intuibili - che a tratti pare essere davvero un documentario. 
‘Chiediamo alle nostre mamme di perdonarci per quello che stiamo facendo.’
Per lavoro sono abituata a maneggiare emozioni. E sono così avvezza a visualizzarle che un po’ me le
immagino come i personaggi di Inside out: chiacchierine, quasi tangibili, con delle espressioni estremamente riconoscibili, addirittura dei colori. Lì nel cinema, seduta al buio, mi sono fatta travolgere dalla tristezza, di più, dall’angoscia - e poi dalla rabbia.
Finchè, a poco a poco, ha cominciato a farsi strada in me la speranza di una libertà da conquistarsi passo
passo, di un lieto fine, di un sollievo. Che poi non si sa esattamente quale fine lieta sarà, se la sarà, ma il
grido liberatorio di quel giovane Capitano temerario, così forte e così delicato allo stesso tempo, in quella
barca piena di corpi stesi al sole, mi ha fatto buttare fuori tutte le lacrime trattenute nella tensione
dell’evolversi degli accadimenti.
E quando si sono accese le luci, la sala è rimasta silenziosa, raccolta, composta; ci siamo messi in fila a due
a due per uscire e ritornare alle nostre macchine, ai nostri letti rassicuranti.