La bella voce di una mamma lavoratrice

Ho già parlato qui e altrove del concetto di ‘cura’ e di ‘prendersi cura’, croce e delizia di noi donne: se delego scompaio e la mia corona di tuttofarewonderwoman, per quanto a volte mi faccia venire un gran mal di testa, me la tengo stretta. Non ci sono abbastanza. Quanto potrei fare ancora. E di più. E meglio. Non c’è verso: sono retaggi culturali che ci portiamo e ci porteremo a lungo, hai voglia a dire di no. Nunc et semper. 

Oggi però, sollecitata e partecipe, voglio dar voce ad una donna che questo ‘mal di testa‘ ha scelto di denunciarlo, un po’ arrabbiata e un po’ delusa: una bravissima professionista e una gran mamma tonica, oltreché un’amica di quelle che ce ne fossero.

Con la Caterina ci siamo fatte una lunga chiacchierata telefonica perché quello che volevo capire da lei, visto che è uno dei temi più caldi che mi stanno riportando diverse pazienti, è in definitiva che cosa vuol dire essere una mamma lavoratrice oggi. Io sento e raccolgo la fatica di molte famiglie, perché sappiate che il non aver figli non mi impedisce l'essere in ascolto: per indole (e per mestiere!) sono piuttosto empatica e ho imparato facilmente a ‘mettermi nei panni di’, solo che mi piaceva l'idea che fosse proprio chi lo sta vivendo sulla sua pelle a raccontarsi.

E' lungo, abbiate, se potete, la pazienza di arrivarci in fondo: io vi riassumerò per punti tutto questo fluire di considerazioni e pensieri al femminile che sono girati da uno smartphone all’altro. Userò la prima persona, perché l’idea è quella della Caterina che parla. Lei, ma potrebbe essere chiunque altra.

Punto primo.

‘La riapertura delle scuole è definitivamente rimandata a settembre: ora c’è tutto il disagio di chi è in smartworking, come me, o di chi a breve dovrà tornare in ufficio, in fabbrica, in negozio e non saprà a chi lasciare i bambini, visto che di affidarli ai nonni non se ne parla. Che poi sullo smartworking tanto si è detto, tanto si è fatto, ma io sento che qui in Italia siamo ancora indietro, non c’è niente da fare. Un po’ c’è l’azienda che non può non dartelo, quantomeno come possibilità, un po’ c’è il capo che ti dice ‘ci mancherebbe!’ ma forse sotto sotto preferirebbe vederti in ufficio - perché si crede che la presenza faccia la differenza, perché non si è avvezzi, perché non si ha la strumentazione - un po’ c’è quella voce che: ‘beata lei che è a casa in cazzeggio!’ Che invece io non sono mai stata così tanto sul pezzo, anche andando ben oltre il mio orario, pur col pc sul tavolo del soggiorno, pur con una lavatrice che intanto ho potuto caricare. Tant’è. Ma l’ambiguità dei messaggi che mi arrivano costantemente pesa, eccome se pesa.'

Punto secondo.

‘La didattica a distanza può affiancare quella tradizionale, ma non sostituirla tout court, ormai ci è chiaro. E poi si è abbondantemente capito che allarga ancora di più le forbici delle differenze sociali e delle possibilità concrete che hanno i ragazzi (chi non ha la rete a casa? chi non ha una buona connessione? chi non riesce a reperire tutto il materiale di cancelleria che serve, perché non ha dietro una mamma come me, attenta, creativa e ingaggiata?). Cioè: dove non arriva - o non arriverà più - la scuola, dovremo arrivare noi genitori, per forza. Con uno sguardo ai loro compiti e l’altro alle loro emozioni: ci sono le domande, le tante, tantissime domande che mi fanno le mie bambine. Bisogna prendersi del tempo per ascoltarle ed accompagnarle, per spiegare loro quello che sta succedendo, perché è giusto fare così, perché così e non diversamente.‘

Punto terzo.

‘Gira che ti rigira, nella stragrande maggioranza dei casi, dietro a questa nuova organizzazione che prevede il coniugare i tempi dell’attività professionale e la gestione dei figli a casa (con buona pace di quei mezzi virtuali tanto demonizzati, ma che oggi gli consentono di rimanere in contatto non solo con il gruppo classe, ma con l’amico o con il nonno, che ha imparato a fare una videochiamata, a raccontare una storia al telefono, o addirittura ad usare Zoom!), ci siamo noi donne. Arieccoci. Siamo ancora a quel pezzo lasciato indietro, a quell’aura di sacrificio, a quel tempo sminuzzato: che qui invece c’è un gran bisogno dei nostri talenti (anche) per ripartire! Io ho la fortuna di potermi organizzare con un marito presente, con cui mi alterno nei turni, con una buona prospettiva di reciprocità: ma penso a chi non ha questa possibilità, a chi non se l’è mai data, a chi non sa come darsela. E sentirli ancora chiamare ‘mammi’, con questo termine apparentemente così giocoso e irriverente, simpatici ragazzoni che fanno giocare i figli, fanno la lotta sul divano come il piccolo Simba col papà Mufasa e magari sanno (addirittura!) cucinare le trenette al pesto, mi fa proprio incazzare. Svilente e ammiccante ad un destino, il nostro, che sembra segnato. Non vedo il nome di una donna nella task force governativa della fase 2, ma com’è possibile?’

Punto quarto.

‘Io ho anche la fortuna di avere uno spazio all’aperto dove le bambine possono correre e respirare il sole, ma penso a chi vive in un appartamento piccolo, magari senza un terrazzo. Dove sono finiti i diritti dei bambini? Chi li rappresenta davvero?’

E con questo vi salutiamo: due donne diverse, con storie diverse, ma sono stata così contenta (di più: onorata!) di ‘scrivere le parole della sua voce‘!

(ndr. in foto la quintessenza di una delle due pupe sopracitate, che abbraccia il suo bestione Zac: l'Agnese. Con la treccina di traverso e l'anellino di margherita.)