La terapia è una musica per camaleonti

"Nessuno sa mai come reagirà a ciò che sta per accadere, nessuno può prevedere quale sarà la sua reazione all’imprevisto, alla tempesta, a quel che "stravolgerà" le sue abitudini. Nessuno sa mai se sarà all’altezza del viaggio che lo costringerà a misurarsi con la sofferenza. Ciascuno, in fondo, è davvero quel che è solo quando viene costretto a misurarsi con un viaggio, con un avvenimento che lo può travolgere." (Federico Pace, "Controvento")

Le strade, le case, le cose. Le storie delle cose nelle case, nelle strade… cambiano. Lentamente, progressivamente. Un po’ per volta. Una fetta di salame alla volta, diceva un mio prof. Oppure da un giorno all’altro, bum, così. E la mutabilità delle cose, non l’immutabilità, è la vera salvezza dell’essere umano. Quello che un tempo pensavamo ci potesse dare un grande slancio può diventare un ostacolo. E quello che sentivamo "stonato", faticoso, pesante, può rivelarsi un’immensa opportunità.

Perché i fatti non sono così facili da riassumere, né l’identità di una persona può essere definita semplicisticamente. Nella linearità di un sintomo, di una scelta, o dall’aver ceduto per una volta a quella propulsione verso l’errore che è propria dell’essere umano.

Sbagliati, addolorati. Ma in definitiva io credo che il dolore abbia una parte centrale nella nostra vita. E l’errore più grande sia proprio quello di continuare a rifiutarlo. Se non si muore (almeno un po’) non si può rinascere. Chi vive una vita semplice, lineare, priva di ostacoli, è infinitamente più arido. Incapace di comprendere davvero, incapace di perdonare.

Accettare che le persone non siano perfette significa anche accettare che possano deluderci. Perché il dolore in fondo ci sbatte in faccia i nostri limiti: quelli veri, autentici. Perché il dolore scommette su di noi. E accettare che non siamo perfetti significa anche accogliere la possibilità di un cambiamento. Nostro, per noi. Per gli altri, anche. I "nostri" altri. Perché ci sono anche quelli, ci sono anche loro, testa cuore, pancia: un’enorme risorsa, non dimentichiamocelo. "Tu sei la mia persona", diceva la resiliente Meredith d’oltreoceano. Che bellezza.

Con l’età adulta si è imparato a far entrare in funzione l’auto-pilota. La sicurezza e la paura prendono il sopravvento: un po’ rassegnati, un po’ accontentati. Allora: (provare invece a) cambiare (un po’) lo sguardo, cambiare (un po’) l’epistemologia. Ma mica tutto, eh. Non è mai tutto da buttare.

Guardare. Consapevolizzare. Scegliere. La stabilità e il cambiamento vanno a braccetto, sono complementari: per tenersi in equilibrio in una canoa bisogna farla oscillare. Perché in fondo ogni dichiarazione di stabilità implica una proposta di cambiamento. Anche se la sola idea ci atterrisce, per quanto risulti evidente che alle volte sia davvero poco funzionale: quasi che ci compiacessimo comunque di quella nostra particolare immagine del mondo, che ci induce ad agire e a sentire come se conoscessimo già tutto.

E allora (forse) può funzionare la nostra etica terapeutica, la deontologia di noi sistemici: le persone possono cambiare, ma non c’é la necessità. Di farle cambiare, intendo. A loro la scelta, sempre.