Eclettica (ma non paracula!)

Più volte ultimamente sono stata sollecitata rispetto ad una autoriflessione sul mio metodo e l’approccio terapeutico.

Mica banale, eh, non crediate.
Potrei anche definirmi eclettica, il che sembrerà un po’ paraculo, ma in realtà io credo che, al di là delle fondamenta che ognuno di noi professionisti ha maturato nel corso degli studi, la terapia debba essere fondamentalmente settata sui bisogni più profondi che il paziente ci porta.

Ordunque.
Un po’ dal percorso di specializzazione, un po’ dalle formazioni e dagli approfondimenti successivi, un po’ dall’esperienza sul campo dentro al mio setting, ho capito innanzitutto cosa-non-faccio.
Beh, il che è già qualcosa, direte voi. 
 
Ecco: sicuramente evito di accanirmi per ‘aggiustare’ il mondo secondo il desiderio e l’aspettativa del mio paziente. No, quello ritengo non si possa proprio fare. 
Al contrario, penso sia indispensabile consapevolizzarlo sulle lenti con cui percepisce gli eventi della (sua) vita: non tanto il fatto specifico in sé, che talora tuttavia posso anche farmi raccontare, magari pure con dovizia di dettagli, ma come vive lui/lei quell’evento, in relazione al suo bagaglio esperienziale e al contesto - familiare, affettivo, relazionale, professionale, etc.
 
Quindi, a seconda di quanto sia alta la sofferenza in relazione a ciò che mi è stato narrato, provo ad intervenire in un pas de deux ‘cautamente morbido’, per andare a modificare quegli aspetti e quei funzionamenti generatori della sua sofferenza emozionale più profonda.
Con un occhio al corpo e ai rimandi che mi lancia, sempre.