"Un castello in Italia" di Valeria Bruni Tedeschi

L’alternanza del francese e dell’italiano, quelle erre arrotolate.
Una Valeria in gran spolvero: i suoi vestiti, rotondi, naïf, così terribilmente e distrattamente francesi. Le gambe che pirolettano nude anche in pieno inverno. E quegli stivaletti, Dio quegli stivaletti.
Poi il blu, in tutte le sue sfumature, intorno al collo, in una gonna.
Musiche incantevoli, che filano benissimo su tutto il film.
La catarsi di una storia che deve toccare il fondo, fino a crollare, come quell’olmo malato, per poter finalmente rinascere.
Molto psicanalitico (la dottoressa della madre ad un certo punto è citata come ‘quella signora molto gentile che mi ha guarito’, giuro che son morta dalle risate!), tra il simbolismo e i conti con le proprie radici più profonde (e qui mai metafora dell’albero suonò più azzeccata): la famiglia, ragazzi, sempre lei.
‘Credi in Dio?’
‘Sì, a giorni alterni.’
Serata casalinga che va giù fresca come un mohito.