Un film naïf che va colto nella sua morbidezza e nel suo essere un po’ ‘meta’, se no non si capisce niente.
E quindi lasciatelo serenamente perdere se avete sullo stomaco una brutta giornata o i fagioli con le cotiche.
Lucia, bionda geometra, con una chioma di capelli al vento che urla tutta la sua irrequietudine, fa i conti con la sua etica deontologica, la spesa a fine mese e una figlia adolescente da crescere da sola.
In una scena incantevole interroga suo padre: ‘Ma da bambina credevo?’
Il padre: ‘A che cosa?’
‘A Dio, a Gesù, a quelle cose lì.’
‘Non lo so, forse non tanto, però ti posso dire che credevi in te stessa.’
Lei, incredula: ‘Ah sì?! E poi che cosa è successo?’
Un dialogo quasi surreale, che parla di convinzioni, fiducia e tanta, tanta autostima. E anche un po’ di vedersi - e rivedersi - nella genitorialità. Ma che tocca soprattutto il tema del credo più profondo.
In un mondo dove ‘sono tutti corrotti, anche i bambini’, come dice il cinico costruttore del progetto, Lucia invece sostiene fermamente col suo psichiatra che solo i bambini possono credere, credere a tutto: persino ad un vecchio alcolizzato come babbo natale.
Il film gira tutto qui: sulla capacità di credere ancora, nonostante l’infanzia sia (ahinoi) da mò passata. Di sentire, di immaginare, di far-finta-di, come quando da piccine si prendeva il the con le principesse.
Una sceneggiatura che non ha la pretesa di essere mistica, ma è piena zeppa di messaggi simbolici da sfogliare uno ad uno, come i petali di quelle margherite del m’ama-non-m’ama.
E no, non vi spoilererò il finale. Giammai.