"Sorry we missed you" di Ken Loach

Ricky è un padre sulla quarantina, due figli, un nanetta sveglia come una volpina e un adolescente un po’ complesso; solita faccia da uomo comune, capelli rossi, pelle chiarissima e un volto temprato dagli eventi e dalla vita (ndr. da qualche parte ho letto che l’attore, prima di calcare le scene del mitico regista, fosse un idraulico, chiaramente scovato da Ken nel ruolo più azzeccato che potesse mai avere!).

La sua è una vita di fatiche: prima la crisi gli fa perdere il lavoro come operaio, poi gli distrugge il sogno più bello: quello di poter comparare casa per lui e la sua famiglia, accollandosi un mutuo, ma almeno smettendola con soldi mensilmente sciupati in un affitto che sa tanto di precarietà.

A bordo del suo nuovo furgone, quello comprato con la vendita dell’auto della moglie - meravigliosa assistente domiciliare, gran cuore e tanta testa - Ricky inizia a lavorare come corriere per un datore di lavoro avido ed emotivamente anestetizzato, un uomo abbruttito dalla vita e dalla fame di guadagno: ora, senza troppo spoilerare, sappiate che il nostro antieroe loachiano non finisce benissimo, malmenato da teppistelli che gli rubano tutta la mercanzia ed inzuppato della sua stessa pipì raccolta in una bottiglia di plastica per risparmiare quel tempo scandito dagli insopportabili beeep del telecomando-a-tempo.

Il film è uno spaccato lucidissimo sulle condizioni proibitive delle lunghe giornate dei corrieri, una realtà esasperante che compare in una sorta di denuncia silente solo in un filetto che gira coi titoli di coda: "Grazie a tutti quei trasportatori che ci hanno fornito informazioni sul loro lavoro, ma non hanno voluto che i loro nomi comparissero". Madonna che forte che sei, Ken.