"Joker" di Todd Philliphs

Sono finalmente riuscita ad andare: le recensioni che leggevo erano in un’unica direzione. E me l’ha spassionatamente consigliato praticamente chiunque avesse messo piede nel buio della sala di fronte a Joaquin a tutto schermo. E la mia Chiara c’è andata addirittura due volte. E poi, vabbè, il regista è quello di Una notte da leoni.

Ho letto da qualche parte che in America hanno messo il veto al presentarsi al cinema con la maschera di joker o travestimenti con gadget e ammennicoli, come solo in USA sanno fare. Un modo come un altro per ovviare ad eventuali disastri, come solo in USA sanno fare. Perché chissà chi si infila dietro a quella maschera: una parabola direttamente proporzionale tra gli ‘ultimi’, gli ‘emarginati’, gli ‘spostati’ (eh già. Così è, se vi pare), e le possibilità di acquistare armi come fossero pacchetti di marshmallow.
Gli ‘inutili’. Perché è tutto lì: quell’ultima parola con cui lui ci saluta.

Un joker che encanta e fa rabbrividire. Che commuove e lascia sbigottiti.
La sindrome della Turette del sorriso: quell’isteria della risata che sta alle parolacce. La narrazione di un percorso che scende fino agli inferi: della mente umana, delle condizioni di vita al limite, del fallimento: qui, lá, a Gotham city come altrove. Gli anfratti più spaventosi, le motivazioni più recondite. Così inquietante e così tristemente verosimile.

Sono uscita dal cinema con il mal di pancia, non so se per la gonna corta senza le calze, la candy cup che con il kids menù puoi riempire di giuggiole fino a scoppiare o quello che mi ha mosso.
Perché non c’è niente di più cattivo di un buono che diventa cattivo.
E adesso si aspetta solo questo benedetto Oscar.