Prozio: ‘Mahito, sto cercando il mio successore. Nel mio mondo c’è ancora molto da fare. Mahito, ti andrebbe di proseguire il mio lavoro?’
E voi come vivrete? Appunto.
Che sarebbe stato esattamente il titolo giusto.
E voi come vivrete la perdita, il lutto, la morte, chiede il regista.
Perché l’ultimo film di Miyazaki (e chissà se sarà l’ultimo in assoluto!) ha un profondo scopo psico-pedagogico.
Nella scelta finale di Mahito, nel suo rifiuto di un nuovo mondo che gli avrebbe risparmiato gli orrori di questo, il regista mette la sua risposta alla domanda: e voi come vivrete?
‘Non cercate i paradisi artificiali, nemmeno quelli che vi offro io’, dice.
‘Non evitate, non cercate mistificazioni.
Vivete il mondo e la condizione umana, per quanto deludenti. Trovatevi un mentore e un amico, un mestiere e un sogno.
Se deciderete di vivere così, per le distrazioni che vi portano lontani dalla realtà ci sarà sempre tempo, non vi preoccupate.’
(Hayao Miyazaki)
A tutti i giovanissimi che cercano la loro strada.
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‘Non uccidermi, abbiamo sciolto una confezione di Xanax nel succo!’
‘Sono tutti morti?’
‘No, io credo che stiano dormendo.’
‘Bene, li preferisco così.’
Carmy: fin dalla prima inquadratura, con quella faccia lì, gli occhioni a palla, i riccioli scarmigliati, la catenina d’oro, ti viene voglia di prenderlo e stropicciarlo tutto e inizi a fare il tifo per lui. Ma tipo groupie, eh. Ovunque vada e comunque vada. L’aggancio empatico per me è stato immediato.
Prendersi cura dei propri clienti, ma essere totalmente incapaci di prendersi cura di se’: troppe magagne in testa e nel cuore ancora irrisolte. L’ansia e l’inquietudine che fanno capolino soprattutto di notte, quando le ombre familiari e le storie del passato si allungano, fratelli, sorelle, cugini, zii; una Chicago che divora, lo spettro della tossicodipendenza, dello spaccio e dell’alcolismo. Violenza versus intelligenza, bisogna imparare a trovare nuove strategie.
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Una Spagna diversa, poco scontata, sole e nuvoloni grigi. Una Malaga ventosa e ruvida, tutt’altro che scintillante.
Una serie che mi ha colpito moltissimo perché essenzialmente tutta virata sul femminile. Ma non perché gli uomini non ci siano: agiscono cose, fanno scelte, alcune buone, altre orribili, dicono la loro, o ci provano almeno, ma sono complessivamente un contorno.
Le donne, invece. Queste sono così intense, gli occhi che parlano, urlano, tagliano, le occhiaie abbozzate, le prime rughe, i primi piani zoomati sul dolore, a ciascuna il suo. La madre, la figlia, la legge, la stampa: come se fossero gli archetipi di un mondo che ruota nel femminino.
Nelle sei puntate si avverte nitidamente l’escalation della perdita progressiva del confine tra bene e male.
Il trauma, la violenza: quella agita, quella subita. Quella che lascia cicatrici per una vita intera, quella che si muove sottopelle. Quella peggiore, perpetrata contro minorenni.
I confini della giustizia, del perdono, della vendetta.
I confini dell’amore: dove inizia, fin dove si può legittimare. Dove non è più tale, ma diventa altro.
I confini della famiglia, quelle abitudini che diventano un rito
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Di ragazzine che cercano di essere il meno diverse possibile dalle altre, di non venire additate come quelle strambe (proprio adesso che Mercoledì va tanto di moda), che parlano con animali immaginari, che vorrebbero la mamma conforme, ma sotto sotto, con quella un po’ fuori dalle righe, si divertono molto di più.
Nella Francia degli anni ‘60, il vento del Nord porta Vianne e la figlia Anouk nel paesino di Lansquenet-sous-Tannes, emblema del villaggio chiuso e moralista, rigidone, fintamente perbenista.
Vianne, superba, con i suoi vestiti colorati, delicatamente vintage e simbolo dell’anticonformismo nomade che le alberga dentro, con tenacia e pazienza, riesce, con una cioccolata calda di antiche origini maya, una fetta di torta dal cuore tenero, una pralina glassata, a togliere uno dopo l’altro tutti i tasselli paesani che inneggiano spavaldi e strafottenti al "Boicottaggio dell'Immoralità".
Del Johnny non voglio neanche parlare, troppo facile, credo allora fosse semplicemente all’apice di tutto quello che rappresentava la sua imperfetta perfezione.
Film datato, di ven'anni almeno, ma sempre così attuale, da rivedere su Netflix, piacevole e morbi
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Sole ha appena compiuto 25 anni e da che ha memoria soffre d’ansia e di attacchi di panico.
Quando perde la sua migliore amica, grazie ad una vecchia lettera che in definitiva si rivelerà fondamentale, scrive una lista di piccole grandi paure da affrontare.
Sono piccoli e grandi spaventi quotidiani, alcuni banali, altri meno, che la fanno attraversare da un profondo senso di inadeguatezza in qualunque situazione vada ad infilarsi: per citarne solo qualcuna, feste, serate, relazioni, inviti a cena, viaggi in luoghi sconosciuti, l’acqua.
Alzi la mano chi di noi non ne ha avuta almeno una simile. Io, ad esempio, lotto da una vita con la fifa per i cani.
Facile identificarsi, ancora di più fare il tifo per lei.
Attualissimo, bella la fotografia, i colori, la musica che strizza l’occhio alle giovani generazioni.
Ho apprezzato che si sia parlato in modo lieve e ‘normalizzante’ di un tema così tosto e così diffuso come quello dell’ansia, senza i soliti toni catastrofici e cupi.
Nota di colore: personalmente ho adorato tutti gli outfit della protagonista, un po’ vintage, un po’ naïf, il genere di un’Amelie contemporanea - molto meno francese, molto più
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Un paio di riflessioni sulla serie Netflix del momento.
Premetto che non ho mai prestato servizio in Diagnosi e Cura, quindi mi esento da fare commenti ‘tecnici’ su una cosa della quale non ho esperienza diretta.
Ho toccato invece con mano situazioni di sanità pubblica territoriale, caratterizzate da terapeuti/neuropsichiatri di diversa matrice, sia formativa, sia umana - chi più empatico, chi meno e vari collaboratori (logopedisti, fisioterapisti…) spesso precari, a contratto, con un carico di lavoro impegnativo: ognuno con la sua deontologia e il suo ‘pezzo’, morale, etico e professionale.
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C’era una volta Mei Lee, una 13enne che viveva a Toronto, una ragazzina tutta ‘d’oro’, impeccabile, sicura di sé, seppur un po’ maldestra, vagamente spaventata e confusa e un filino castrata (vale metterla giù così Dr. Freud?!) tra il continuare ad essere la figlia diligente di una madre rigidona e il casino totale dell’adolescenza.
La solerte signora Ming non si allontana mai da lei, lì per lì insopportabilmente invadente, ipercontrollante, invischiante - e chi più ne ha più ne metta. Scegliete una cosa a caso per far salire da zero a cento quel senso profondo di vergogna sociale che si prova quando si attraversa l’età adolescenziale. Sbugiardare la cottarella per lo sfigatello di turno? Un riferimento osceno al sesso? Un assorbente sventagliato alla finestra? Bingo. Mrs Ming li azzecca tutti, come fossero birilli.
Arrabbiata, frustrata, umiliata… quel sentore dei cambiamenti dirompenti in arrivo nella sua vita, nei suoi bisogni, nel suo corpo: e bam! La nostra 13enne si sveglia nelle sembianze di un enorme panda rosso. Una bella bestiaccia, morbidosa eh, ma un tantino ingombrante. E lo stesso succederà tutte le volte che un’emozione (diononvoglia!)
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Quello che tu non vedi è un titolo che c’azzecca pochissimo, niente a che vedere con quello originale, Words on Bathroom Walls, che allude in modo evocativo al lato oscuro che accomuna tutti coloro che almeno una volta hanno scribacchiato nefandezze sui compagni o gli insegnanti sui muri dei bagni di scuola. (Tipo quelle degli autogrill, ma peggio, perché almeno lì sono perfetti estranei, ecchecazzo).
Titolo a parte, un teen movie che direi si lasci vedere proprio bene, almeno per la capacità di trattare con quel giusto mix tra la profondità (beh, evidentemente intendo quella ALMENO tollerabile ad un adolescente!) e l’ironia con cui alleggerisce un tema così scomodo e così respingente come la salute mentale.
Il protagonista, faccia d’angelo e pelle d’ebano, in procinto di prendere il diploma, se la smazza tra primi amori e un po’ di bullismo, conflitti con i genitori (pure separati) e la solita ricerca adolescenziale della propria, sgarruppata identità. E fin qui ghe semo con tutta l’America facilona de’ noatri.
Eppure la schizofrenia del giovane Adam viene trattata con particolare cura e grazia, dalla personificazione delle sue tante identità ad
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Ricky è un padre sulla quarantina, due figli, un nanetta sveglia come una volpina e un adolescente un po’ complesso; solita faccia da uomo comune, capelli rossi, pelle chiarissima e un volto temprato dagli eventi e dalla vita (ndr. da qualche parte ho letto che l’attore, prima di calcare le scene del mitico regista, fosse un idraulico, chiaramente scovato da Ken nel ruolo più azzeccato che potesse mai avere!).
La sua è una vita di fatiche: prima la crisi gli fa perdere il lavoro come operaio, poi gli distrugge il sogno più bello: quello di poter comparare casa per lui e la sua famiglia, accollandosi un mutuo, ma almeno smettendola con soldi mensilmente sciupati in un affitto che sa tanto di precarietà.
A bordo del suo nuovo furgone, quello comprato con la vendita dell’auto della moglie - meravigliosa assistente domiciliare, gran cuore e tanta testa - Ricky inizia a lavorare come corriere per un datore di lavoro avido ed emotivamente anestetizzato, un uomo abbruttito dalla vita e dalla fame di guadagno: ora, senza troppo spoilerare, sappiate che il nostro antieroe loachiano non finisce benissimo, malmenato da teppistelli che gli rubano tutta la mercanzia ed inzup
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Non si conosce Rocco se non intercettando con cura i suoi personalissimi livelli di rottura di coglioni: dal sei in poi, i bambini urlanti, gli intenditori di vini, gli eventi di più di un’ora. Per arrivare al dieci cum laude: gli omicidi da stanare in una gelida Aosta, dove è stato traferito per motivi disciplinari dalla sua Roma.
Il vicequestore, scazzato quanto basta dal clima che imperversa e dalla noia della provincia in un Nord estremo, non molla le sue Clarks e il vecchio loden, a costo di rischiare raffreddature e geloni ai piedi; ‘na cannetta rollata alla finestra del suo ufficio e passa la paura.
Gli ingredienti ci sono tutti: i colleghi virtuosi e quelli scemi, l’anatomopatalogo cinico al punto che se magna un tramezzino sul cadavere (‘Oh Rocco col lavoro che fo’ o ci scherzi o fai la loro fine’) e poi lui, LUI: poliziotto borderline dal carattere fortemente irascibile, fin troppo insofferente alle regole, parecchio schivo, ma al contempo estremamente affidabile.
Quel pericoloso confine tra bene e male che tanto acchiappa l’imperfezione stessa nella proiezione dello spettatore e quel senso di giustizia dissacrante, ma profondo, con cui il tormentat
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Un film tratto da una storia vera che disarma per la sua implacabilità, per i falsi miti, per il pregiudizio imperante, per l’ipocrisia e la violenza, sottile, ma invischiante. Eppure ha il grande merito di farci entrare in questa America aberrante e antistorica, di mostrarne il lato più e subdolo (“fingi ciò che non sei”).
Quanto un Jared scioccato e colpevole confessa ai genitori l’attrazione per il suo stesso genere, viene immediatamente iscritto al programma “Rifugio” di un centro cristiano di recupero, Love in Action, specializzato nella terapia di conversione di qualsiasi tentazione omosessuale (ndr. cercate online e troverete esperienze inimmaginabili e tutte reali).
E’ qui che si ritrova l’apoteosi di quell’ignoranza becera e cieca di pensare di poter anche solo “modificare” un essere umano partendo dal presupposto che si tratti di un COMPORTAMENTO: una “scelta”, come il praticare uno sport piuttosto che un altro, frequentare una scuola anziché un’altra. Non credo serva aggiungere altro.
Il tutto è piuttosto doloroso per chi lo guarda e per chi lo vive, ma il dipanarsi della trama è fortunatamente capace di portare alla consapevole
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Al di là che:
- Shonda Rhimes è una garanzia,
- come muove le sopracciglia lui, L-U-I, che quando ne alza una, dico: una sola, io ho già il preludio di tutta la sintomatologia di un attacco di panico di quelli tosti, che manco il più ansioso dei miei pazienti riuscirebbe a farselo venire così bene,
- non ci penso neanche di addentrarmi nel giro polemico della scena iniziale, dove è stata scovata 'sta benedetta spessa riga gialla, di quelle che, sulle strade moderne, servono a delimitare corsie e permessi (che stride un tantino con carrozze e cavalli al trotto, occhei, occhei...!),
- i corsetti e la vita alta col nastro di velluto liscio che gira tutt'intorno per me son sempre stati letteralmente adorabili!
Ecco, dicevo, al di là di tutto questo, io consiglio e caldeggio la serie su Netflix.
Prima di tutto per le passioni trasversali, ante tempo: l'amore, il desiderio, ma anche la competizione e l'invidia. E quei pettegolezzi e papers che volteggiavano leggiadri, come oggi girano post e pin e tweet e vocali e messaggi rubati nelle app di cellulari stanchi, ma così stanchi di leggerne fin troppe.
Poi, solo per dirne un'altra: la base socio culturale dell'epoc
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Nel 2014 Ken Loach riceve l'Orso d'oro alla carriera al Festival Internazionale del Cinema di Berlino.
Nello stesso anno esce Jimmy's Hall, sullo sfondo dei soliti splendidi paesaggi irlandesi e con quell’atmosfera vintage che già val bene la pena per le musiche, i guanti e i cappellini, i tagli dei capelli ondulati, gli abitini a vita bassa!
Il tema ruota intorno alla rivolta popolare contro l’oscurantismo imposto dai poteri alti, dove una Chiesa nera un po’ la fa da padrone, quei temibili ‘teppisti con la croce in mano’.
Gli anni ‘20 e poi gli anni ‘30: la storia è ispirata alle vicende di James Gralton, leader politico irlandese tanto pieno di grinta e di carisma quanto sfortunato in amore. La sua cittadinanza americana sarà per lui un brutto boomerang, così da portarlo all’espulsione dalla sua amata patria con l’accusa di essere un immigrato clandestino. E il tutto addirittura senza un regolare processo.
Una madre adorabile, lungimirante e prospettica, che portava di scuola in scuola ai bimbi della provincia i libri di una biblioteca ambulante, gli insegna fin da bambino che l’Irlanda non è una, perché gli interessi del Conte non sono
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Un film naïf che va colto nella sua morbidezza e nel suo essere un po’ ‘meta’, se no non si capisce niente.
E quindi lasciatelo serenamente perdere se avete sullo stomaco una brutta giornata o i fagioli con le cotiche.
Lucia, bionda geometra, con una chioma di capelli al vento che urla tutta la sua irrequietudine, fa i conti con la sua etica deontologica, la spesa a fine mese e una figlia adolescente da crescere da sola.
In una scena incantevole interroga suo padre: ‘Ma da bambina credevo?’
Il padre: ‘A che cosa?’
‘A Dio, a Gesù, a quelle cose lì.’
‘Non lo so, forse non tanto, però ti posso dire che credevi in te stessa.’
Lei, incredula: ‘Ah sì?! E poi che cosa è successo?’
Un dialogo quasi surreale, che parla di convinzioni, fiducia e tanta, tanta autostima. E anche un po’ di vedersi - e rivedersi - nella genitorialità. Ma che tocca soprattutto il tema del credo più profondo.
In un mondo dove ‘sono tutti corrotti, anche i bambini’, come dice il cinico costruttore del progetto, Lucia invece sostiene fermamente col suo psichiatra che solo i bambini possono credere, credere a tutto: persino ad un vecchio a
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Il dottor Beckham (un Keanu Reeves in splendida forma) opera in modo non convenzionale all’interno della dimora-ricovero in cui fa alloggiare i suoi piccoli pazienti con disturbi del comportamento alimentare: è qui che la nostra intensa Ellen vivrà diverse emozioni. Alcune hanno radici che affondano in un passato ben lontano, ma tornano tutt’oggi a scombussolarla, altre sono sconosciute, parte del percorso di cura e della sua giovane età che si sta affacciando all’’adultità’. Una personalità complessa, che - come dice il dottore, lungimirante - deve poter toccare il fondo prima di trovare le forze per risollevarsi.
Gli ingredienti ci sono tutti: la famiglia sgarrupata, la situazione complicata, la voglia di farcela, ma la cognizione che blocca, chissà come, chissà perché.
Nessun ammiccamento tragico, nessuna scena raccapricciante: è incredibile come il film riesca a rappresentare profondamente un tema così forte, con una leggerezza e una delicatezza che a tratti fanno anche sorridere, con una speranza luminosa di guarigione.
Ve lo consiglio con questa frase, pronunciata con vigore dal personaggio estremamente positivo della sorellastra: ‘Se muori,
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Quando seppe che era candidata all’Oscar, la protagonista Marlee Matlin, sorda dai suoi primi diciotto mesi di vita, era in una clinica a disintossicarsi: le sostanze erano state un modo per eludere ai pensieri sul bullismo subito, gli abusi adolescenziali ed una relazione violenta.
Quell’Oscar poi lo vinse davvero: il suo primo film e la più giovane attrice protagonista sorda a vincere quel gran titolo.
Da allora son passati più di trent’anni: ha vinto la battaglia contro la droga, madre di quattro figli, attrice, produttrice e sostenitrice attiva della causa per la sordità.
E poi, dulcis in fundo, è stata protagonista di uno dei tanti talent show di ballo che stanno spopolando nelle TV americane: “Non sento la musica, ma ho imparato a contare i passi.”
Mi sento di dire: se lo vuoi non è un sogno. Perché ognuno ha il diritto di essere incluso. Ognuno ha qualcosa di unico da dare.
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L’alternanza del francese e dell’italiano, quelle erre arrotolate.
I suoi vestiti, rotondi, naïf, così terribilmente e distrattamente francesi. Le gambe che pirolettano nude anche in pieno inverno. E quegli stivaletti, Dio quegli stivaletti.
Poi il blu, in tutte le sue sfumature, intorno al collo, in una gonna.
Musiche incantevoli, che filano benissimo su tutto il film.
La catarsi di una storia che deve toccare il fondo, fino a crollare, come quell’olmo malato, per poter finalmente rinascere.
Molto psicanalitico (la dottoressa della madre ad un certo punto è citata come ‘quella signora molto gentile che mi ha guarito’, giuro che son morta dalle risate!), tra il simbolismo e i conti con le proprie radici più profonde (e qui mai metafora dell’albero suonò più azzeccata): la famiglia, ragazzi, sempre lei.
‘Credi in Dio?’
‘Sì, a giorni alterni.’
Serata casalinga che va giù fresca come un mohito.
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Ci siamo: si è sdoganato un passaggio epocale, un’alternativa ai ruoli di genere della vecchia guardia.
Ora ci sono le gang di donne, è vero: e chi si è persa la prima serie di Skam Italia su Netflix rimedi immediatamente. Racconta e celebra la grande capacità delle femmine di fare gruppo, di ridere insieme, di apprezzare il positivo della vita e di condividerlo con semplicità. E’ la nuova solidarietà tra giovani donne, con le loro idiosincrasie, peccatucci, fragilità, debolezze, ambizioni.
L’amicizia femminile delle Millenial è fondata sull'intimità, la confidenza reciproca, l'aiuto (non solo fisico “Ti accompagniamo noi al consultorio!”): perché difendono con fermezza ciò che ritengono importante, per qualcosa o per qualcuno. E allora non le fermi neppure per un attimo; naturalmente solidali ed empatiche, al bisogno diventano combattive e tirano fuori le unghie (possibilmente laccate di nero o di bordeaux).
E poi compensano con un pezzo (e che pezzo!) fortemente emozionale, spirituale.
Odio sentire quel termine di “sorellanza”, coniato nel femminismo anni ’70 e oggi (ahimè) sempre più presente nelle conversazioni radical-chic e sui social. Let
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L’avevo già visto, ma mi era rimasta solo la sensazione di un vago ricordo. E alla terza o alla quarta volta che ci sono inciampata su Netflix ho cliccato su Riproduci perché mi sembrava una specie di segno ricorrente.
Mica male, cioè: me lo dovevo rivedere, in effetti.
Storia facile: George è un tagliatore di teste, o, come si fanno chiamare oggi, ‘agenti del cambiamento‘. Dai, ve la metto in inglese e in maiuscolo che così fa più scena: ‘Career Transition Counsellor‘. Non suona tutta un’altra cosa?!
I malcapitati non vengano mai appellati con la parola licenziati, ma sono semplicemente, ‘delicatamente‘ congedati - o, meglio, sono ‘persone fuoriuscite‘. E mentre lo rivedevo giuro che pensavo che qualche pezzo in comune con noi psy mi risuonava, ma davvero: cavoli, solo dell’opportunità del cambiamento ci abbiamo fatto un baluardo dei nostri cardini terapeutici. Accompagnando per mano i pazienti (... o i congedati?!), magari immaginando con loro che cosa potrà accadere. Dopo - qualunque e comunque questo ‘dopo‘ sia. Proprio come il marmoreo George: apriamo prospettive per il futuro.
E che dire di quello zaino sulle spalle? Altra connessione i
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Sempre un capolavoro. Hugh Grant in gran spolvero, soprattutto ubriaco. Ma lui, l-u-i, il baluardo britannico Mr. Stevens è l’archetipo del maggiordomo perfetto: indossa una maschera per non dover affrontare vis à vis le proprie crisi interiori, un lutto, probabilmente il più grande amore della sua vita. Legge libri romantici, ma lo fa di nascosto. E nasconde anche le emozioni e i sentimenti con studiata indifferenza. Dignità, come direbbe lui.
Non si lascia trasportare dalle provocazioni, dai vizi: non vede, non sente, non parla, peggio delle tre scimmiette. Serve il suo padrone. Dirige altrove i suoi pensieri. Ignora persino i fiori, o pretende di farlo.
Ma a che prezzo?
Ormai dovremmo aver imparato che mettere a tacere l’ansia, zittire il dolore, chiudere a chiave una passione non sono scelte funzionale. Si generano blocchi che mettono a repentaglio la crescita personale, addirittura la salute: la repressione delle emozioni, soprattutto quelle negative, può esaurire le risorse, aumentando lo stress a scapito della lucidità, persino della memoria. E allora perché c’è chi lo fa pedissequamente, manco fosse l’allievo prediletto dell’esimio maggiordomo Hopkins?
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La famiglia è una bella zuppa. Come quella di pesce alla catalana, ci sta dentro un po’ di tutto.
Ci sono i fardelli e le zavorre, le regole implicite e le idee perfette.
Le premesse strutturanti comprimono, inchiodano, legano. Dobbiamo allora imparare ad usare idee DE-strutturanti, che ci fanno uscire letteralmente dal “giogo” della struttura familiare: continueremo a farne parte, ma con le nostre regole. O perlomeno: quelle che ci sentiamo addosso oggi. Perché queste continue trasformazioni dei sistemi di appartenenza contribuiscono in modo determinante allo sviluppo identitario, scolpiscono e ridanno vita alle narrazioni di significato.
Un mio professore aveva ipotizzato di “parlare agli antenati” e restituire loro i “malloppi” che per anni ci si portava dalla famiglia di origine. “Grazie, ma oggi non mi servono più“: un po’ disobbedienti, quasi un po’ sleali. Irriverenti, ecco, con quella bella capacità di “andare oltre”.
La terapia familiare è finalizzata a comprendere le dinamiche relazionali su cui si basa l’equilibrio dell’intero sistema e va ad aiutare i vari membri ad individuare (e a modificare!) i comportamenti disfunziona
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📞 Silvia: ciao, hai qualche nuova serie da consigliarmi?
📞 Giulia: ho appena finito di vederne una meravigliosa, su Prime, si chiama Modern Love.
📞 Silvia: non sarà il solito pippozzo melenso dove gira che ti rigira, dopo mille peripezie, finisce che sono tutti felici e contenti?!
📞 Giulia: ma io... ti pare?! Sappi che sono tutte storie vere, estrapolate dalla colonna del New York Times, un rubrica settimanale. Come quella di Carrie, dai.
📞 Silvia: Guarda che quella di Carrie non era mica vera, sai?! E comunque ammetto che stai iniziando ad incuriosirmi.
📞 Giulia: ti giuro che sono storie appassionanti, di coppie giovani, vecchie, etero, gay, più o meno improbabili, che si sono innamorate o lasciate. O ritrovate.
📞 Silvia: definitivamente convinta. Ok. C’è voluto poco.
📞 Giulia: sono tutte una gran coccola, vedrai: mi ringrazierai. Già ti immagino. E poi son puntate veloci: van giù bene come la Pale Ale che ci faremo alla nostra, quando ci riabbracceremo.
📞 Silvia: eh già, che noi un po’ congiunte in fondo le siamo.
📞 Giulia: puoi ben dirlo. Ah, dimenticavo: prepara i fazzoletti che si piange! Ma si piange felici, come piace a noi.
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Un sacco di candidature e i due attori protagonisti hanno vinto nel 2015 a Berlino.
Il film è un’incantevole descrizione ‘del tramonto’ della storia di una coppia, delicata e immaginata piuttosto che vista davvero: la metafora di un tramonto anagrafico e della loro relazione.
Un evento improvviso irrompe nella loro tranquilla routine, fatta di piccole cose e di grande complicità: lui, travolto da un’emozione che credeva sopita, sembra rimpiangere quell’esistenza impavida, in giro per il mondo e su per le montagne che avrebbe trascorso con l’ex fidanzata, morta accidentalmente in quota.
E, nel riflesso degli occhi del marito, lei rilegge la loro vita come una scelta riparativa, per anestetizzare un dolore che non aveva capito essere stato così profondo.
Con i SE oziosi delle domande ipotetiche di lei - che noi donne quando ci mettiamo siamo bravissime a farci del male - la forza del loro amore si sgretola a poco a poco, nell’arco della settimana in cui si svolge il plot del film, proprio alla vigilia della festa per i loro 45 anni di matrimonio.
Io l’ho amato dal primo all’ultimo fotogramma, ma questa sono proprio io: una coppia, le domande, i silenzi,
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Premessa: per vederlo ci vuole il mood giusto: o si perde tanto di quegli sguardi, dei silenzi, dei gesti del corpo che fanno intravedere quel che non si dice, o non si può dire.
In questi giorni ‘chiusi‘ in cui le relazioni (quelle che ci sono, quelle che mancano) sono un po’ il mio tema cardine, e nei quali mi capita anche di non riuscire a fare delle terapie online perché lui/lei/il figlio sono nell’altra stanza e la privacy viene a meno, un film che ruota intorno ad un famiglia accogliente e rassicurante, ma anche limitante ed invadente, per la sottoscritta è un po’ come lo zucchero a velo sulla torta.
Chissà perché su Netflix è uscito con questo titolo del menga, oltretutto in inglese, l’originale, ve lo metto per dovizia e sollecitudine era questo: 'Chemi Bednieri Ojakhi' ovvero (cercato, giuro, il georgiano ahimè mi manca) 'Non è mai troppo tardi'. Ora, non che neppure questo brillasse di originalità, ma era pur sempre un filino meglio.
E' la storia di una donna georgiana che passa la vita al servizio degli altri, la famiglia, gli allievi e ad un certo punto, quando alla 52sima candelina del compleanno, ha uno scatto di indipendenza, lascia casa e m
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Dove ci sono i fratelli Coen, anche se non propriamente alla regia, ma alla sceneggiatura, per me è sempre una garanzia. Li adoro come la pizza al gorgonzola, l’odore dei tigli in estate, la crema idratante dopo il sole. Di Clooney regista confesso di non sapere granché, ma a cicca e spanna direi che si sia divertito a girarlo: chissà, un po’ di documentarismo-denuncia (che non fa mai male), un po’ di campagna anti Trump.
Suburbicon è un tranquillo (o apparentemente tale) quartiere residenziale californiano. Buffo eh, il nome in inglese ricorda quello dell’unicorno: polverina di stelle e qualcosa di mistico, di esoterico, cioè, di un po’ magico, ma magico bello, magico buono. E invece.
Di buono non c’è proprio nulla. Da un omicidio a sangue freddo ad una compostezza manieristica dell’America anni ‘50, con le onde nei capelli tinti, il grembiule a ruota inamidato con le farfalle ton sûr ton e il pane e burro di arachidi con il classico bicchierone di latte. Tanto fintamente gioiosa e perfetta da sembrare quasi psichiatrica. Da un odio razziale crescente ed esponenziale, feroce e meschino, che nasconde una fottutissima paura, ad una codardia misera
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Quando dici Özpetek pensi ad un sacco di cose. Famiglie allargate, amori finiti e appena iniziati, omosessualità. E poi, su tutti, troneggia la cucina. Già ti immagini quel tavolone di legno grezzo lungo più o meno tre metri e largo uno, in cui stanno seduti comodi comodi in dodici, stringendosi un po’ anche in quattordici. E i personaggi che parlano dei grandi temi del cuore, delle emozioni, della morte, magari anche con la bocca piena, come si fa nella vita.
Nel sempre lovely Le fate ignoranti c’è una scena celebre in cui si mangiano le famose polpette che Massimo, il defunto, fedifrago, marito di Antonia, cucinava la domenica per i suoi amici segreti. Nel film la ricetta, Massimo, se l’è portata nella tomba.
La rocambolesca Serra, portinaia/amministratrice/comare non si dà pace:
Serra: Devi dirmi dov’è che ho sbagliato. Forse c’ho messo troppo arancio.
Antonia: No, ti prego. Appena sveglia, no!
Serra: A lui non gli venivano così! Mela grattugiata, peperoncino, cotte nella cipolla e nell’arancio, o forse non ci andava la cipolla?
Antonia: Non lo so.
Serra: Ah, pensavo gliele avessi insegnate tu! Massimo le faceva sempre.
Antonia: Massimo cucinava? ..
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Quando si viene lasciati si viene pervasi da un senso di smarrimento e di ingiustizia: adesso che ne sarà di lei, di me, di lei che può fare a meno di me? La premessa di ogni educazione sentimentale sta nel lasciare da parte le emozioni violente, ma farsi pervadere dalla calma forte di un sentimento: magari, perché capita, eeeh se capita, proprio quello della tristezza.
Un paio di sere fa ho rivisto il film Closer.
In una parola: spietato.
L’escalation della violenza di un tradimento subito da un uomo e da una donna, la rappresentazione vivida del dolore, le diverse modalità di reazione.
Un film che scarnifica per le battute taglienti, quasi teatrali.
Un film che sconvolge perché qualcosa, almeno una cosa, anche solo piccolissima, l’abbiamo sperimentata tutti sulla nostra pelle.
Da vedere come terapia per rispecchiarsi:
‘Amo di te tutto ciò che fa male.’
La quintessenza della bruttura dell’amore.
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Da poco ho rivisto ‘Il lato positivo’.
Innamorati, traditi, affranti o pieni di resilienza, sobri, ubriachi, malati, sani, stanchi, felici: vi prego, guardatelo e riguardatelo. E poi ancora, tra un mese. Ogni volta un pezzo nuovo che suona: su di voi, sul vostro contesto, sul vostro tempo. Un riflettore dolcissimo o spietato, una sorta di atto magico alla Jodorowsky. Perché è uno di quei film che ‘non ti fa entrare due volte nello stesso fiume’. E non me ne voglia Eraclito se lo cito in un post insieme a Bradley Cooper.
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Mi infilo in sala un po’ stanchina come Forrest Gump, alla fine di un lunedì intenso, ma non posso mollare: penso alla mia amica Irene che me ne ha parlato in una sera freddissima, davanti ad un aperitivo improbabile, con noccioline rinsecchite e uno spritz con una fettina di limone. E dopo poco: eccola là, mi compare la promo del film su Facebook, vista assolutamente per caso. Non posso non lasciarmi ‘toccare’: perché se le coincidenze hanno un senso dobbiamo seguirle, a tutti i costi. O perlomeno provarci. Che un po’ di magia, in fondo, c’è anche in questo.
Per Jodorowsky, gran parte dei nostri problemi derivano dalle barriere (quelle che io chiamo regole implicite?) della nostra società, della nostra famiglia di origine e della nostra cultura di appartenenza: sono fattori che ci impediscono di trovare il nostro vero io (Chi voglio essere oggi? Cosa voglio diventare?). La psicomagia dà una spintarella a liberarsi da queste ‘catene’ (che quelle, ad un certo punto del film, compaiono davvero ai piedi di due poveri malcapitati). Catene, insomma: retaggi, pregiudizi, pattern disfunzionali reiterati negli anni.
Gli atti psicomagici sono impressionanti
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Nella settimana della giornata della memoria, vi consiglierei di andare di corsa a vedere questo film. Una satira delicata che ti coccola. Si ride, si sorride e ci si commuove, che poi sono le tre cose meravigliose che mi piace fare davanti al grande schermo.
Il piccolo Jojo ha 10 anni, un patatino biondo più tenero che goffo. Buffo (tragico?) come l'occhio spietato che solo certi bambini possono avere gli attribuisca un soprannome del mondo animale: rabbit, coniglio. Perché degli animali, che pure penso che dovremmo imparare ancora tanto, ma tanto, noi umani abbiamo un’iconografia tutta nostra, che identifica il forte (come un leone), il furbo (come una volpe), il veloce (come una gazzella), il debole (come un coniglio, appunto). [A questo punto consiglierei caldamente la lettura de ‘La collina dei conigli’, uno dei romanzi più belli della mia infanzia, ma questa è tutta un’altra storia.]
Il nostro rabbit biondo ci prova in tutti i modi ad essere quel che dovrebbe, spronato dal suo Führer immaginario che quasi quasi fa più simpatia che paura. Ma il nanetto ariano dal sangue puro comincia a farsi troppe domande e a vacillare su un confine di bene/male che
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L’esimio prof. Bauman dice che il modo più efficace per essere infelici è cercare la felicità. Ovvio: la ricerca di per se’ è caricata di un'aspettativa illusoria e sposta l’attenzione su un futuro immaginato, in fin dei conti un po’ irreale.
Ma la felicità sta nelle cose piccoline... Ad esempio: per me è scoprire che su Netflix c’è la serie di Annaaa daiii capelliii rossiii! Rendo l’idea del mio sorrisone?! Dico: siamo alla terza stagione e io non ne sapevo nulla. Nulla. Io che con l’Anna-con-la-A (‘perché così suona più elegante’) ci sono cresciuta: ho visto il cartone, ho letteralmente divorato tutti i libri, ho giocato nel bosco con lei e Diana Barry, ho trepidato per l’amore tribolato con Gilbert Blythe, mi sono commossa quando ha perso il primo figlio. Avrei voluto mangiare confettura di zucca tutti i giorni e avere le lentiggini. E confesso che il mio primo viaggio in Canada l’ho fatto proprio pensando a Green Gables. Questa è la mia felicità piccolina! E la vostra?
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Un bravo psicanalista è impermeabile alle emozioni dei suoi pazienti. Ma nel caso di Elia, analista ebreo di mezza età, c’è il sospetto che abbia superato un po’ il confine deontologico e si avvicini pericolosamente ad indifferenza e noia. Severo, arguto e impietoso, tiene tutti a distanza, persino l’ex moglie, che vive nell’appartamento accanto e con cui continua a condividere il bucato e qualche sporadica serata a teatro. Finché...
Ok. Non spoilero oltre.
Non speciale, ma il film merita più che altro per la presenza indiscutibile del mio Servillo del cuore.
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Per i miei 40 anni ho ricevuto in regalo una copia di Piccole Donne da chi sapeva bene quanto ho amato questo romanzo. Edizione del 1970. Altro che vintage.
Dal libro profumato della Mursia, che poi era una specie di compendio della storia originale, pieno di bellissime illustrazioni, dove la me-bambina sbavava per quel grembiulino stupendamente inamidato della già trendissima Amy, in pendant con la fascetta che aveva nei capelli, ne abbiamo fatta di strada. (Io e loro, dico). Riletto in età adulta, fortunatamente rinsavita sui grembiulini inamidati, ho pensato che la Alcott fosse una strega. Prospettica, avanti con i tempi, di più: futuristica. Il suo libro è come il tubino nero con un filo di perle, un evergreen.
Delle più di due ore di film della Gerwig si potrebbe parlare altrettanto, dalla scelta più o meno azzeccata degli attori (capelli, appeal, personalità), alla gioia per gli occhi di una scenografia come un quadro, dove lo scorrere del tempo è scandito vividamente dal colore delle stagioni e dei vestiti a ruota delle signorinelle, allo struggimento emozionale di certi passaggi volutamente lasciato solo intuire - della serie: che lo spettatore faccia il suo p
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In una domenica uggiosa, in cui scavalco le cose per terra facendo finta di niente e sposto libri e pantofole e vestiti un po’ a caso perché non sono nel mood di occuparmene, mi accoccolo sulla termocoperta e mi faccio un’immersione di due ore davanti a ‘Storia di un matrimonio’. Uno dei punti più intensi di un film forte e commovente, incredibilmente sfaccettato di emozioni, è la canzone struggente di Being Alive di Stephen Sondheim.
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A parte la pioggia a scrosci torrenziali, che in confronto a quella che abbiamo avuto noi nel mese di novembre, ma lévate: e guai a chi sento dire che adesso non se ne può davvero più.
Il film merita dal primo all’ultimo minuto: distorto e allucinato, dissacrante e sardonico.
Un trade off sottile tra la condizione economica e, più in generale, l'appartenenza ad una classe sociale e la deontologia personale e familiare: ‘Papà, ma siamo noi quelli che hanno bisogno di aiuto!’.
Il succo è tutto qui: lei, che è ricca eppure così gentile, in realtà è gentile perché è ricca. E così la morale salta sull’altalena e l’etica diventa un affaire squisitamente soggettivo: perché i crediti che la vita ti deve ti legittimano anche laddove non si vorrebbe cadere.
La faccio breve, mi porto a casa due insegnamenti da appuntare pedissequamente nella mia nuova Molesquine del 2020:
a) se non hai un piano niente può andare storto
b) quando il climax di casa diventa ascendente e un po’ surreale è vietato organizzare delle grigliate in giardino.
E la chiudo con un pensiero al buon Gianni, che mai avrebbe pensato di ritornare in ginocchio da te davanti ad un pupa corea
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Sono finalmente riuscita ad andare: le recensioni che leggevo erano in un’unica direzione. E me l’ha spassionatamente consigliato praticamente chiunque avesse messo piede nel buio della sala di fronte a Joaquin a tutto schermo. E la mia Chiara c’è andata addirittura due volte. E poi, vabbè, il regista è quello di Una notte da leoni.
Ho letto da qualche parte che in America hanno messo il veto al presentarsi al cinema con la maschera di joker o travestimenti con gadget e ammennicoli, come solo in USA sanno fare. Un modo come un altro per ovviare ad eventuali disastri, come solo in USA sanno fare. Perché chissà chi si infila dietro a quella maschera: una parabola direttamente proporzionale tra gli ‘ultimi’, gli ‘emarginati’, gli ‘spostati’ (eh già. Così è, se vi pare), e le possibilità di acquistare armi come fossero pacchetti di marshmallow.
Gli ‘inutili’. Perché è tutto lì: quell’ultima parola con cui lui ci saluta.
Un joker che encanta e fa
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Quando Giallini spiega gli uomini alle sue amate figlie:
“Io mi sento di poter dividere gli uomini in quattro categorie, che più o meno vanno a coprire circa il 95% dell’universo maschile.
Categoria Numero 1: gli insoddisfatti. Tutto il giorno ripetono: la mia vita fa schifo, mia moglie non mi ama, i miei figli mi detestano. La donna che casca in questo rapporto diventa una crocerossina. Non dice mai: Io ti amo. Dice: Io ti salverò.
Categoria Numero 2: i Peter Pan. Hanno di bello che non hanno crisi di mezza età perché sono fermi all’ adolescenza. Per loro sei un joystick, conquistarti vuol dire salire al primo livello, portarti a letto è vincere la partita. Prediligono donne giovani, esageratamente giovani.
Categoria Numero 3: i vorrei-ma-non-posso. Di solito sposati con figli, ma in procinto di separarsi, in procinto di dirglielo, in procinto di andare via di casa. Sono sempre in procinto di, ma non fanno mai nulla, perché ora lei sta attraversando un momento difficile, perché il bambino è piccolo, perché il bambino non capirebbe. Poi, alla festa di laurea del bambino, forse capisci che il momento giusto non arriverà mai. Infine ci sono i buoni, belli e intel
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Viggo conferma di amare i film di qualità 'perché voglio far parte di storie che io stesso andrei a vedere al cinema'.
Viggo che sorride e si riempie di rughette.
Viggo che si taglia la barba e celebra quel rituale che sostanzialmente abbiamo inventato noi donne, maddai: davanti al nostro parrucchiere per buttarci simbolicamente nel cambiamento.
Viggo. Ma Viggo. Io per te imparerei a memoria gli emendamenti della costituzione americana e mi aprirei ad un lungo dibattito sul marxismo.
E farei un brindisi per il compleanno di Noam Chomsky. Ma senza acqua avvelenata, ti giuro.
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Solo lo stralcio di un dialogo, per un film magicamente unico. O unicamente. Una volta, almeno quella.
AMELIE: Grazie. Mi piace molto questo quadro!
RAYMOND: È la "Colazione dei canottieri", di Renoir. Ecco, ne faccio uno all'anno, da vent'anni. La cosa più dura sono gli sguardi. A volte ho l'impressione che cambino espressione apposta, ma non appena volto le spalle, eh?
AMELIE: Qui sembrano piuttosto contenti della vita.
RAYMOND: Ma loro possono. Quest'anno hanno avuto lepre ai funghi, e cialde con marmellata per i bambini. (...)
Ebbene, dopo tutti questi anni la sola persona che faccio ancora fatica a delineare è la ragazza con il bicchiere d'acqua. È al centro eppure ne è fuori.
AMELIE: Forse è solo diversa dagli altri.
RAYMOND: Eh? In cosa?
AMELIE: Non saprei.
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È come la stagione delle piogge nel mese di dicembre nel Massachusetts. Disastrosa, ma necessaria'.
Potrei dilungarmi sull'invecchiamento e la demenza senile. Potrei cavalcare l'onda della tenerezza, dei (sor)risi, della commozione. Potrei parlare di genitorialità e 'figlitudine'. Potrei citare dignità, rispetto e ribellione.
E invece dirò solo una parola. Abusata, vituperata, bistrattata. Oso, addirittura io, sissssì.
A m o r e.
Ciao.
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Adoro lei. E amo profondamente lui: così intenso, così macho, così iberico.
La combo mi sembrava potesse essere una gran cosa.
'Madre'. L'avevo curato da lontano al Festival del cinema di Venezia: recensioni pessime, critica costernata. Miodio. Eppure. Eppure volevo toccare con mano, non mi capacitavo.
La follia della trama del film, soprattutto nella seconda parte, non ha lasciato scampo. Non l'ha lasciato a ME. Che ho assistito paralizzata al non-sense e all'escalation di bruttezza indicibile, dapprima con qualche (raro, amaro, incredulo) sorriso, poi choccata, alla fine decisamente incazzata.
Ora. Gli interrogativi che restano aperti sono sostanzialmente un paio. Perché due attori di quel calibro hanno accettato di prestarsi a cotanto scempio. E perché io ho scelto di passare due ore del mio sabato sera così agghiaccianti.
Ai posteri l'ardua sentenza.
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Chi lo definisce cupo e senza speranza, io l’ho trovato struggente e pieno di delicatezza. Uno dei migliori di Ken visti ultimamente. Finale incluso, senza spoiler!
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Da Venezia a Los Angeles, con il film candidato all'Oscar per l'Italia.
I colori e le emozioni di un film che non può lasciare indifferenti.
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Un film fatto di tante matrioske, l’una dentro l’altra, che cercano di dare risposta alle mille domande irrisolte, giocando con le ipotesi, con la fantasia.
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Il primo cartone animato descriveva le emozioni primarie rappresentandole con cinque diversi personaggi: gioia, rabbia (che bellezza questa rabbia rosso fuoco e tondetta!), tristezza, disgusto e paura. Nella storia vedevamo come si comportavano i singoli personaggi e questo meccanismo ci aiutava a identificare meglio i nostri funzionamenti dovuti al sollecitarsi di quelle emozioni.
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